fbpx
14.02.2024 #arte

Alessandro Di Pietro

Attraverso la mia arte faccio parlare i fantasmi

«Se mai esisterà, mi interessa il pubblico del 2300, vorrei scoprire come si approccerà alle mie opere e se le considererà ancora arte»

Una mostra come una seduta spiritica, dove lo spettro dell’artista scomparso torna a mescolarsi fra noi elaborando nuove opere d’arte, nuovi opinioni e una visione di mondo riadattata ai giorni nostri. Medium di questo viaggio è Alessandro Di Pietro, mentre l’anima rievocata è quella dell’americano Paul Thek, morto per l’Aids nel 1988. Il progetto finale ha un nome lungo e articolato: “Ghostwriting Paul Thek: Time Capsules and Reliquaries”. Si tratta di una mostra realizzata alla Fondazione Nicola Del Roscio di Roma grazie al sostegno dell’Italian Council (XI edizione, 2022), programma di promozione internazionale dell’arte italiana della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura e curata da Peter Benson Miller e Cornelia Mattiacci. Il progetto, in scena dal 13 febbraio al 5 aprile, è già stato  presentato al Watermill Center, al CAN-Centre d’Art Neuchâtel, in Svizzera, e a Palazzo Monti di Brescia. Di Pietro, classe 1987, messinese di nascita ma ormai milanese d’adozione, ha realizzato un corpus di lavori operando come una sorta di ghostwriter. “Ho continuato le misteriose narrazioni di Paul con il mio linguaggio, adattandolo ai discorsi che circondano la storia di oggi. Il mio processo è stato immaginare come una storia – in questo caso, la storia del lavoro di un artista – sarebbe proseguita se non fosse stata bruscamente interrotta”. L’artista italiano ha così intrapreso un viaggio immaginario dove Thek non sarebbe mai scomparso, ma avrebbe proseguito la sua pratica. L’effetto finale è un cocktail di realtà e finzione, dove al centro di tutto c’è l’enorme influenza che il compianto artista newyorkese ha avuto nel lavoro dei suoi colleghi contemporanei. Dopo la tappa romana, i cinque lavori del nucleo “Ghostwriting Paul Thek” entreranno a fare parte della collezione pubblica del museo Madre di Napoli. Incontriamo Alessandro mentre è impegnato nell’allestimento dell’esibizione negli spazi di via Crispi, a pochi passi dalla Fontana di Trevi.

 

Il progetto alla Fondazione Del Roscio si intitola “Ghostwriting Paul Thek: Time Capsules and Reliquaries”. Perché un lavoro tutto dedicato a Thek?

Alessandro Di Pietro :

«Paul Thek è un artista dall’identità artistica sofisticata con un corpus di opere tanto iconiche quanto sfuggenti, sempre diverse. Ha creato un immaginario folk e queer. Alla fine della sua vita ha osato dipingere “male” e modellare reliquie di carne in cera, mostrificando il modulo “alfa-male” di Donald Judd. Ha avuto modo di cambiare le sue stesse opere modificandole continuamente perché il tempo è Dio e tu non ci puoi fare niente, ti rassegni e cerchi di assomigliare al tempo stesso diventando il tuo peggiore nemico. Ha messo on stage la sua stessa morte come nel caso di The Tomb (1967) successivamente intitolato Death of a Hippie. In questa continua transizione estetica e temporale ha avuto modo di definire l’alfabeto formale e concettuale di cui si sono nutrite – anche a loro insaputa – le successive generazioni di artisti fino ad arrivare alla mia»

Cosa aveva di diverso rispetto agli altri esponenti della controcultura hippie degli Stati Uniti negli anni Sessanta?

Alessandro Di Pietro :

«Thek è l’artist’s artists tra i più trafugati del dopoguerra, la sua opera è stata oggetto di grandi speculazioni e di appropriazioni non dichiarate – cosa che l’arte si permette di fare, in nome del furto come azione legittimata di stampo postmoderno. Con questo progetto ho provato non solo a prendere ma anche a “restituire” a lui la sua opera immaginata come inedita e postuma. L’album di Kurt Cobain – un altro biondo – che non ha potuto realizzare nel 1995 o lo stupore di quando abbiamo ascoltato la canzone You know you’are right del 1993 ma mai titolata fino all’uscita nel 2002 nel famoso greatest hits. “Hippie” è un appellativo che risuona come una condanna per gli artisti della sua generazione come ci fa notare Mike Kelley nel testo “Death and Transfiguration: A letter from America”  del 1992. E’ il modo in cui questi artisti sono stati ghettizzati dei governi Regan-Bush negli anni 80 e che ha impedito loro di potersi evolvere nel mercato finendo dimenticati per oltre 20 anni. Essere Gay-Cattolico-Hippie e negli ultimi anni “with AIDS”, avrà creato un cocktail troppo indigeribile per gli americani di quegli anni, inoltre l’opera di Thek non si digerisce mai, rimane multiforme e immune agli anticorpi normativi della Storia dell’Arte»

Con questo progetto ha immaginato quale potesse essere la produzione di Thek se non fosse morto, ricreandola attraverso sculture e film. Come ci è riuscito?

Alessandro Di Pietro :

«Leggendo Aliens and Anorexia (Semiotext(e) della scrittrice americana Chris Krauss, ho capito che le ricerche fatte su di lui negli anni precedenti avrebbero avuto una chance di essere incanalate in qualcosa. Il modo in cui Krauss scrive in questo libro di Simone Weil come di Paul Thek era affascinante perché tentava di entrare nelle vite di questi personaggi e nella loro esperienza dell’anoressia che – come scrive Simone Weil – “si fa espressione estrema di rifiuto nei confronti del cinismo che la cultura dominante”. In quelle pagine si percepisce l’impossibilità di potersi immedesimare completamente in qualcun altro (the difficult task of trying to understand another person, Race of a Hippie, 2023). E poi, essere connessi con qualcuno che non si è mai conosciuto è per me comunque un privilegio della cultura pop»

C’è un che di inquietante nei suoi lavori, spesso sembrano arrivare da case infestate da spettri: come ci si deve comportare davanti a un fantasma?

Alessandro Di Pietro :

«Con molta onestà, come si fa con i veri amici»

Crea reperti, testimonianze, ritrovamenti che dovrebbero appartenere al passato ma sembrano arrivare dal futuro. Perché la memoria è così importante per lei?

Alessandro Di Pietro :

«Per alcuni cicli di opere mi capita di considerare la dimensione temporale degli oggetti. Per esempio nelle capsule scultoree FELIX (2018) e Shelley (2019) volevo consegnarli a un passato funzionale o tecnologico. Nelle prime mostre che facevo scaldavano o producevano elettricità per poi scaricarsi, “morire” e diventare in definitiva una scultura da “ritrovare” ed essere ripresentata. È un modo per immaginare questi dispositivi come se fossero sempre esistiti. Un altro aspetto legato alla memoria è il pubblico: se mai esisterà, mi affascina sapere come il pubblico del 2300 vedrà queste mie opere e se le considererà ancora arte, se l’arte avrà ancora un senso e se le opere che ho attribuito a Thek verranno ufficialmente considerate ancora arte»

Ha detto che i materiali che sceglie per la scultura sono sempre arsi, disidratati. Non hanno mai nulla a che fare con l’acqua. Perché tutta quest’arsura? Cos’ha l’acqua che non va?

Alessandro Di Pietro :

«I materiali che amo di più sono così. Mi piace che non si facciano manipolare, che comandino e limitino la possibilità di azione. L’acqua non ha nulla che non va, è solo che per me rappresenta la vita, mentre la morte ha sempre a che fare con l’arte»

Se oggi Thek fosse vivo, cosa direbbe?

Alessandro Di Pietro :

«Stop the genocide now»

Se lei non avesse fatto l’artista cosa sarebbe diventato…?

Alessandro Di Pietro :

«Donald Duck…»

 

 

Intervista: Germano D’Acquisto

Foto: Niccolò Campita

More Interviews
Vedi altri