Thaddaeus Ropac
Una galleria deve essere un luogo capace di stimolare i propri artisti
“Non possiamo semplificare l’arte perché l’arte non è semplice e non lo sarà mai. Ma possiamo aiutare chi è disposto a dedicarle tempo”
Lo scorso 20 settembre Milano ha aggiunto un nuovo, importante capitolo alla sua storia dell’arte contemporanea: la Galerie Thaddaeus Ropac inaugura la sua prima sede italiana negli spazi neoclassici di Palazzo Belgioioso, con la mostra L’aurora viene, un dialogo tra Georg Baselitz e Lucio Fontana visibile fino al 21 novembre. Conosciuto come uno dei galleristi più influenti al mondo, Thaddaeus Ropac, nato a Klagenfurt nel 1960, ha costruito negli ultimi quarant’anni un impero culturale che oggi conta sedi a Salisburgo, Parigi (Le Marais e Pantin) e Londra. Con l’apertura milanese, Ropac conferma la sua vocazione di ponte tra le grandi capitali dell’arte, scegliendo di debuttare in Italia con un dialogo tra il gesto rivoluzionario di Fontana e la forza pittorica di Baselitz, in un palazzo che porta in sé l’eredità dell’Illuminismo lombardo.

Palazzo Belgioioso è un luogo carico di storia. Che esperienza vuole offrire a chi visiterà la neonata galleria milanese?
Volevamo stare nel cuore della città, vicino ai grandi musei, al centro nobile di Milano, una zona dove la cultura ha sempre avuto un ruolo centrale. Lo spazio è piccolo, il più raccolto tra le nostre sedi, ma ha una forza storica straordinaria. Era originariamente la biblioteca del palazzo: un luogo pensato per lo studio e la lettura, due metafore perfette per il lavoro che facciamo.
Milano è una città che mescola moda, design, architettura. In che modo il nuovo spazio dialogherà con questo universo creativo?
Quando abbiamo condiviso per la prima volta la notizia con i nostri artisti, abbiamo percepito un entusiasmo autentico. Per loro Milano è fonte d’ispirazione. E credo che questo sia l’aspetto più importante per una galleria: essere in un luogo che stimoli davvero i propri artisti. E con tutto il suo patrimonio culturale, Milano ha già fatto scaturire in loro idee bellissime, sia per le mostre che per i dialoghi da costruire. È stimolante pensare non solo alla mostra inaugurale, ma già molto oltre. Le idee non ci mancano, e questo è un segnale molto positivo.

In un mondo dominato da fiere e algoritmi, quanto conta ancora l’esperienza fisica dello spazio espositivo?
È la cosa più importante. Le fiere servono a fare networking, ma non offrono lo spazio ideale. Noi puntiamo alle mostre nelle nostre sedi: spazi studiati nei minimi dettagli, con luce e atmosfera calibrate. Per gli artisti è fondamentale poter progettare con calma e cura. Questo resta il cuore del nostro lavoro. Tutto il resto – fiere, pop-up, eventi – viene dopo.
Se le persone non capiscono l’arte contemporanea, di chi è la colpa?
Direi che è un po’ anche delle persone. Chiunque è invitato a partecipare: non possiamo semplificare l’arte fino a “diluirla”, perché l’arte non è semplice e non lo sarà mai. Possiamo però aiutare chi è disposto a dedicare tempo e impegno: allora sì, potrà capirla davvero. Ma serve uno sforzo, e non possiamo fingere che sia tutto immediato, altrimenti toglieremmo all’arte la sua parte più essenziale – e questo non possiamo e non dobbiamo farlo.

Qual è il film della sua vita?
È difficile sceglierne uno, ma un video che mi ha colpito molto è How to Explain Pictures to a Dead Hare (Come spiegare le immagini a una lepre morta) di Joseph Beuys. In questa performance, l’artista cammina portando una lepre morta in braccio, spiegando l’arte a questo “interlocutore” immobile. È un’immagine forte e simbolica, che racchiude molto della sua filosofia. Quel film mi ha lasciato un’impressione profonda.

Una curiosità, le piacerebbe essere il suo assistente?
Posso essere molto esigente, è vero, ma credo di essere in grado di gestire ogni mia richiesta. Quindi, perché no?
Ritratti: Ludovica Arcero
Testo: Germano D’Acquisto
