Patrizia Sandretto Re Rebaudengo
La Fondazione è uno spazio vivo, un arcipelago di luoghi diversi, ciascuno con un’anima
«Gli artisti interpretano la complessità del nostro tempo. Sostenere un talento emergente significa offrirgli tempo, strumenti e fiducia»
Se l’Italia avesse un’ambasciatrice dell’arte contemporanea nel mondo, il suo nome sarebbe senza dubbio Patrizia Sandretto Re Rebaudengo. Trent’anni fa era una giovane donna torinese con alle spalle una carriera possibile nell’azienda di famiglia – quei Sandretto industriali che, nel dopoguerra, produssero le prime presse a iniezione per materie plastiche – e davanti a sé un destino apparentemente scritto. Poi ha seguito un’altra curva: l’arte e la collezione. Nel 1995, esattamente 30 anni fa, ha fondato a Torino la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, trasformando un’intuizione privata in un faro internazionale per artisti e appassionati, con mostre capaci di attrarre un pubblico cosmopolita e curioso. Collezionista, filantropa, voce autorevole nei board dei musei più importanti – dal MoMA di New York alla Tate di Londra, dal MACBA di Barcellona al RAM di Shanghai – Patrizia Sandretto Re Rebaudengo non ha mai amato l’etichetta di “mecenate”. Eppure, nel definire chi oggi sostiene e lavora per il contemporaneo con rigore, intelligenza e passione, il suo nome è inevitabile. Laureata in Economia e Commercio, negli anni Novanta scopre l’arte contemporanea e da allora non la lascia più. Con rigore sabaudo e un pizzico di follia, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo ha fatto dell’arte una missione, e della sua Fondazione un “arcipelago” di luoghi vivi, spazi aperti e progetti internazionali, dove il contemporaneo esce dai musei per entrare nella vita delle comunità. La incontriamo nei giorni di Artissima e soprattutto dell’importante compleanno…

Trent’anni di Fondazione: quali momenti ricorda come i più emblematici di questo percorso?
Ricordo molto bene il giorno in cui ho costituito la fondazione, il 6 aprile 1995. Ripensando agli artisti, alle mostre, alle opere e ai tanti progetti, ho la sensazione che questi trent’anni siano volati. Guardo al passato non con nostalgia, ma con soddisfazione per quanto realizzato e con l’attenzione rivolta al presente e al futuro. Oggi la Fondazione è uno spazio vivo, un “arcipelago” – per usare un’immagine che mi ha regalato Hans Ulrich Obrist – di luoghi diversi, ciascuno con un’anima, un’architettura e un territorio propri. L’apertura delle sedi ha segnato la storia della Fondazione: nel 1997 Palazzo Re Rebaudengo a Guarene, dimora settecentesca della mia famiglia tra le colline del Roero; nel 2002 il centro d’arte di Torino, nel quartiere San Paolo, progettato ex novo dall’architetto Claudio Silvestrin; e nel 2019 il Parco d’arte Sandretto Re Rebaudengo sulla Collina di San Licerio a Guarene, un parco di grandi sculture open air, accessibile gratuitamente. Un altro momento importante è stata la costituzione, nel 2017, della Fundación Sandretto Re Rebaudengo Madrid, che promuove mostre in luoghi insoliti e poco conosciuti della capitale spagnola, a cui sono molto legata.
Qual è stata la sfida più grande nel far dialogare l’arte contemporanea con il pubblico e la città di Torino?
La Fondazione è nata con l’obiettivo di rendere l’arte contemporanea accessibile a tutti, creando spazi di dialogo, formazione e sperimentazione. La sfida principale è stata far percepire che l’arte contemporanea non è un linguaggio distante o riservato a pochi, ma uno spazio di confronto che riguarda tutti. Dal 2002 abbiamo adottato la pratica della mediazione culturale dell’arte, per favorire l’incontro tra opera e spettatore e creare un’esperienza partecipativa. Oggi offriamo un programma ricchissimo di progetti educativi e laboratori per tutte le età – dai bambini di due anni agli adulti, dalle scuole alle famiglie, fino alle persone fragili – collaborando con una rete ampia di realtà e professionisti di discipline complementari all’arte contemporanea.
La sua collezione e la Fondazione hanno sempre sostenuto artisti emergenti: cosa la convince a investire in un talento ancora poco noto?
La Fondazione è nata grazie agli artisti e per gli artisti, per dare corpo e spazio alle loro visioni, e continua a impegnarsi per rendere visibili i loro pensieri, i loro sguardi, le loro domande. Gli artisti hanno la capacità di interpretare e restituire la complessità del nostro tempo, attraverso linguaggi visivi che possono essere innovativi o tradizionali: un video generato da un algoritmo, un dipinto, una scultura, un disegno. Amo le opere che sanno porre domande, creare connessioni, sperimentare e sfidare le convenzioni. Sostenere un talento emergente significa anche assumersi una responsabilità: accompagnare l’artista nella sua crescita, offrendo strumenti, tempo e fiducia per sviluppare le proprie idee.

Se potesse tornare indietro, ai primi anni della Fondazione, cosa consiglierebbe a sé stessa?
Mi darei lo stesso consiglio che mio padre mi ha dato trent’anni fa, quando gli parlai per la prima volta dell’idea di dare vita a un’istituzione: “Se vuoi farlo, fallo bene”. Ho cercato di seguire questo consiglio ogni giorno, e spero di esserci riuscita.
Come ha visto cambiare il ruolo della donna nell’arte durante questi trent’anni?
In questi trent’anni il ruolo delle donne nell’arte è profondamente cambiato, anche se il percorso verso la piena parità non è ancora concluso. Dagli anni ’90 a oggi le artiste hanno conquistato più spazio e possibilità di autodeterminarsi. Molte voci, un tempo marginali, oggi sono riconosciute. Tuttavia, resta ancora molto da fare: la presenza delle donne nelle collezioni museali e nelle grandi mostre è aumentata, ma resta inferiore rispetto a quella degli uomini, così come la loro rappresentazione nel mercato dell’arte. Per me essere donna è sempre stata un’opportunità, mai un limite. Crescendo in un contesto familiare dove la parità di genere era un dato acquisito, ho avuto la fortuna di muovermi in un mondo – quello dell’arte contemporanea – che negli ultimi anni ha sviluppato una forte sensibilità verso inclusione e diritti. Una delle prime linee guida della mia collezione è stata l’attenzione alle artiste donne: Cindy Sherman, Barbara Kruger, Jenny Holzer, Sherrie Levine, Shirin Neshat, Vanessa Beecroft. Le loro opere mi hanno insegnato molto. Come fondatrice di un’istituzione, ho sentito la responsabilità di dare spazio e voce alle donne. Nel 2004 la Fondazione ha dedicato l’intera programmazione alle artiste, a partire dalla personale di Carol Rama, figura straordinaria che ha affermato la propria libertà creativa in un contesto difficile. Nel 2006 ho creato il Premio StellaRe, per celebrare donne che hanno aperto nuovi orizzonti nella cultura, nella scienza, nella politica e nell’economia. Oggi vedo una generazione di artiste, curatrici, collezioniste e professioniste dell’arte più consapevoli e autonome, e questa trasformazione mi rende fiduciosa.

Se dovesse definire la sua collezione con tre parole, quali sceglierebbe?
Visionaria, perché guarda sempre al futuro, anticipando linguaggi e domande del nostro tempo. Relazionale, perché nasce dal dialogo continuo con gli artisti, dalla fiducia e dallo scambio che si costruisce nel tempo. Impegnata, perché crede nel ruolo dell’arte come strumento di consapevolezza, apertura e trasformazione sociale. La collezione è al centro delle mostre realizzate per festeggiare i 30 anni della Fondazione: a settembre abbiamo inaugurato La bella estate, dedicata alla storia della collezione e alle sue origini, a Palazzo Re Rebaudengo a Guarene. Tra pochi giorni inaugureremo a Torino News From The Near Future, una mostra che si sviluppa in due sedi e ripercorre trent’anni di collaborazioni, progetti, produzioni, committenze e sperimentazioni.
Quale opera della Fondazione pensa abbia avuto il maggiore impatto sul pubblico, e perché?
Tra le molte opere che hanno segnato la storia della Fondazione, credo che Aletheia di Berlinde De Bruyckere sia stata una delle più intense e toccanti per il pubblico. Parla di fragilità, memoria e rinascita, e durante il lockdown ha assunto un significato ancora più profondo. In quei mesi di sospensione collettiva, Aletheia è diventata uno specchio della condizione umana: il corpo come luogo di vulnerabilità ma anche di resistenza, la materia come testimonianza di un’energia in trasformazione. Molte persone hanno vissuto quell’opera come un’esperienza quasi catartica, un momento di silenzio e consapevolezza in un tempo incerto. Il suo impatto nasce proprio dalla capacità di mettere in contatto l’intimità dell’individuo con una dimensione collettiva, universale.

Quali sogni o sfide ancora da realizzare vede all’orizzonte?
Il prossimo grande passo sarà l’apertura, nel 2026, della nostra terza sede sull’Isola di San Giacomo a Venezia. Da tempo desideravo una sede a Venezia e quando mio marito ed io abbiamo scoperto l’isola, abbiamo subito capito che era il luogo perfetto. Questo piccolo lembo di terra in mezzo alla laguna intreccia storie antiche ed è un prezioso ambiente naturale. Da tre anni l’isola è diventata per me un avamposto dei sogni. I lavori di recupero sono guidati dal rispetto della storia e dei valori del luogo e dalla cura del suo ecosistema. Abbandonata per oltre sessant’anni, l’isola è stata monastero, punto di sosta dei pellegrini, vigna, orto e sito militare fortificato. La stiamo trasformando in un giardino e restaurando gli edifici in rovina, riadattandoli a spazi espositivi. Qui la Fondazione organizzerà mostre, performance, residenze artistiche, convegni, spettacoli dal vivo, in un dialogo che coinvolgerà arte, architettura, musica, cinema, teatro e danza. L’isola sarà completamente autosufficiente dal punto di vista energetico, un centro ecosostenibile dove affrontare, attraverso l’arte, temi cruciali come il climate change. La Fondazione ha già “battezzato” l’isola nell’aprile 2022, durante la 59ª Biennale di Venezia, ospitando la performance In the tired watering di Jota Mombaça, un intervento poetico dedicato alla dinamicità dell’acqua e ai sentimenti di inquietudine di fronte alle minacce di una futura catastrofe planetaria. In occasione della 60ª Biennale, nel 2024, è stato presentato Pinky Pinky “Good” dell’artista coreana Eun-Me Ahn: un rituale collettivo di benedizione ispirato alla tradizione sciamanica, concepito per l’isola e a celebrare la sua nuova vita come luogo per l’arte contemporanea.
Intervista: Germano D’Acquisto
Ritratti: Ludovica Arcero
Bidibidobidiboo 1996, foto: Zeno Zotti
