Stefano Accorsi
Mai sentirsi mai “arrivati”, la sensazione di traguardo è pericolosa: ti fa perdere il lato intimo del mestiere
«La curiosità è l’antidoto. Ti spinge a interrogarti, a documentarti in modo autentico, ad avventurarti in zone che non conosci»
«La curiosità è l’unica cosa che non deve morire mai. Ti salva dal sentirti arrivato.» È con questa frase, detta quasi distrattamente durante l’intervista, che Stefano Accorsi riassume trent’anni di mestiere e di vita. Un’idea semplice, ma lucida: l’attore come esploratore, sempre in bilico tra scoperta e dubbio. In fondo, il suo percorso sembra costruito proprio intorno a questa tensione: il desiderio di andare altrove, di non restare mai troppo a lungo nello stesso posto.
Nato a Bologna nel 1971, Accorsi arriva al cinema quasi per caso: un annuncio di Pupi Avati sul Resto del Carlino, il suo debutto in Fratelli e sorelle, poi la Scuola di Teatro Alessandra Galante Garrone, e da lì la consapevolezza che quella sarebbe stata la sua strada. Nel 1996 Jack Frusciante è uscito dal gruppo lo fa conoscere al grande pubblico; due anni dopo Radiofreccia, con Ligabue alla regia, gli regala il primo David di Donatello e la sensazione di aver trovato una voce. Da allora, Accorsi diventa un volto trasversale: passa dal romanticismo inquieto de L’ultimo bacio alle sfumature emotive di Le fate ignoranti, dalla crudezza di Romanzo Criminale alla fisicità tormentata di Veloce come il vento, che gli vale il secondo David. Lavora con Gabriele Muccino, Ferzan Özpetek, Paolo Genovese, Philippe Claudel, Nanni Moretti, Paolo Sorrentino — ma non smette di tornare al teatro, la sua vera casa. Orlando Furioso, Decamerone, e ora un Ulisse che promette di riportarlo all’essenza del racconto. Negli ultimi anni, ha aggiunto un nuovo capitolo: Planetaria, il format che unisce scienza e arte per parlare di ambiente in modo non catastrofista, ma possibile. Un progetto che riflette il suo sguardo: curioso, concreto, mai moralista. Oggi, dopo tre decenni di cinema e di vita pubblica, Stefano Accorsi continua a interrogarsi, a mettersi in gioco, a sorprendersi. Ed è forse questa, più di ogni ruolo, la sua vera eredità: non l’essere un attore “arrivato”, ma uno che non ha mai smesso di partire.

Dopo più di trent’anni di cinema, teatro e televisione, cosa le sembra di aver imparato davvero sul mestiere dell’attore?
È una bella domanda, anzi una domanda cardine. Direi che una delle cose più importanti è mantenere viva la curiosità. Continuare a esplorare, a non sentirsi mai “arrivati”, perché quella sensazione di traguardo è pericolosa: ti fa perdere il contatto con la parte più intima e autentica del tuo mestiere. La curiosità è l’antidoto. Ti spinge a interrogarti, a documentarti in modo autentico, ad avventurarti in zone che non conosci. È fondamentale anche nella preparazione dei ruoli: se sai ascoltare davvero, ogni cosa che ti viene detta può diventare materiale per il tuo personaggio. E poi c’è la tecnica, che con l’esperienza cresce e diventa quasi automatica. Ma bisogna stare attenti, perché può trasformarsi in una trappola. A volte serve spingersi fuori dalla propria zona di comfort, fare in modo che ogni ruolo resti una scoperta.
C’è un ruolo che considera fondativo, quello che ha cambiato il suo modo di recitare o di guardarsi?
Sicuramente Radiofreccia. È stato il primo ruolo che mi ha permesso di esplorare un mondo che in parte conoscevo e in parte no, di viverlo in modo profondo e intimo. Luciano Ligabue, alla sua prima regia, aveva già una maturità incredibile nel rapporto con gli attori: ci lasciava spazio, ci permetteva di lavorare su cose piccole, interiori, senza forzare mai la mano. Quel ruolo mi è rimasto dentro — avevo 27 anni, era distante da me ma affascinante, e ha segnato una svolta. Poi ce ne sono stati altri: Le fate ignoranti, L’ultimo bacio, Veloce come il vento. Ma Radiofreccia è stata la prima scintilla.

Ha spesso alternato progetti popolari e film d’autore. Quanto è difficile mantenere oggi questa doppia fedeltà?
In realtà la chiave è una sola: il desiderio di fare quel progetto. Non sai mai se un film sarà popolare o meno. L’ultimo bacio, Le fate ignoranti, La dea fortuna… nessuno poteva prevederne il successo. Quello che conta è la chiamata, quella spinta iniziale. Io credo che sia importante continuare a muoversi tra entrambi i mondi. Oggi il cinema è ancora uno spazio di libertà, mentre la serialità ha una logica diversa — più collettiva, più orizzontale. Nel cinema c’è sempre un autore che esprime il suo punto di vista sul mondo, e questo è prezioso. Per me non esistono “caselle” da riempire, ma storie che chiamano.
Ha lavorato con registi molto diversi: Muccino, Özpetek, Claudel, Moretti… C’è un incontro che le ha lasciato un segno umano, più ancora che artistico?
Sì, Carlo Mazzacurati. Avevo fatto un piccolo ruolo in Vesna va veloce e poi L’amore ritrovato con Maya Sansa. Carlo mi ha colpito per la sua sensibilità narrativa, per il suo cinema apparentemente minimale ma pieno di senso e umanità. Era un uomo ironico, generoso, di una simpatia travolgente. Una sera a cena ho riso così tanto che avevo male ai muscoli della testa. Aveva un senso dell’umorismo unico, e un talento nel raccontare che ho trovato in pochissimi.
Guardandosi indietro, c’è un’occasione che avrebbe voluto cogliere e non ha colto?
Sì, avrei potuto lavorare con Marco Bellocchio. Era un periodo in cui avevo bisogno di fermarmi un attimo, dopo L’ultimo bacio e Le fate ignoranti. Ci siamo parlati, avevo letto il copione e lo trovavo bellissimo, ma mi sono preso troppo tempo e la cosa non si è fatta. Mi è dispiaciuto molto.
Beh, c’è tempo per recuperare…
Spero di sì. Bellocchio è uno degli autori più vivaci che abbiamo in Italia. E mi piacerebbe anche tornare alla commedia: è un linguaggio che adoro, soprattutto nelle sue sfumature più surreali.

Può anticiparmi qualcosa dei prossimi progetti?
A fine gennaio esce Le cose non dette di Gabriele Muccino, poi a marzo La lezione di Stefano Mordini, dove ho ritrovato Matilda De Angelis, ed è stato bellissimo. Ora sto girando Il rumore delle cose nuove di Paolo Genovese e tra poco inizierò le prove per uno spettacolo teatrale ispirato all’Odissea, centrato sulla figura di Ulisse.
Che spazio occupa oggi per lei il teatro, la scena dal vivo?
Fondamentale. Io vengo dal teatro e, dopo una pausa, ci sono tornato con l’Orlando Furioso e poi il Decamerone. Da allora mi sono detto: mai più senza. Il teatro ti forma, anche dopo anni di carriera. Ti insegna l’ascolto, il ritmo, il contatto diretto con il pubblico. Non è mai un monologo, ma un dialogo continuo. Ogni replica è diversa, ogni reazione cambia il flusso. È la forma più antica e più viva di racconto: non mostra, evoca.

Negli ultimi anni si è impegnato anche su temi ambientali. Quanto entra questa sensibilità nel suo lavoro e nella sua vita?
Molto. Con Planetaria, il festival su ambiente e climate change, che abbiamo portato avanti per due anni a Firenze, cerchiamo di parlare di ambiente in modo possibilista, non catastrofista. Collaboriamo con scienziati per raccontare scenari di convivenza con il cambiamento climatico e soluzioni concrete. Facciamo anche spettacoli per bambini e famiglie: credo molto nel loro ruolo. Nel quotidiano sto attento agli sprechi, alla differenziata, ma senza fanatismo. Non voglio vivere nell’ansia. Il punto non è salvare il pianeta: il pianeta si riprenderebbe in pochi mesi. Dobbiamo farlo per noi, per i nostri figli, con i nostri figli.
Dopo tanti ruoli e viaggi, cosa desidera ancora dal mestiere? La spinta è ancora quella di raccontare gli altri, o ormai più se stesso?
No, me stesso no. Ho fatto un sogno in cui andavo a vedere un film su di me: era di una noia mortale. Non finiva più! La mia vita mi piace, sono felice, ma non mi interessa raccontarla. Voglio continuare a raccontare storie, e magari farlo anche attraverso la commedia. Quella sì, non mi stanca mai.
Intervista: Germano D’Acquisto
Ritratti: Niccolò Campita
