Anna Franceschini
Lavorare con le cose mi permette di riflettere sulle nostre relazioni di potere: usiamo, consumiamo, sostituiamo
«Mettere in scena i rituali del sistema economico in cui viviamo, esagerarli o semplicemente mostrarli, è già un modo per criticarli»
C’è un momento, nelle opere di Anna Franceschini, in cui la materia sembra quasi trattenere il fiato. Gli oggetti si scuotono, le macchine sussurrano, i dispositivi industriali diventano creature in bilico tra il gesto e l’autonomia. È lì che il cinema, privato della pellicola, torna ad animarsi come esperienza fisica: un “film senza film” fatto di motori, cavi e rituali visivi. Classe 1979, Franceschini non filma le cose — le rianima, le interroga, le mette in scena come se avessero finalmente qualcosa da dire. Il suo lavoro parte dal cinema ma scivola altrove: nell’archeologia degli oggetti, nella loro capacità di incarnare desideri, ossessioni, estetiche del capitalismo. Le sue installazioni, tra scultura, performance e apparato, fanno collassare la distanza tra umano e non umano, tra l’arte e la fabbrica. Le macchine diventano corpi, le merci organismi sensibili, i residui industriali creature dotate di coscienza scenica. È una poetica del cortocircuito, in cui la “macchina come cinema” sostituisce il vecchio sogno del “cinema come macchina”. Con Venere & Marte, in corso fino al 16 novembre all’Antiquarium del Santuario di Ercole Vincitore (VILLÆ, Tivoli), Franceschini costruisce un dialogo tra archeologia e tecnologia, sacro e industria. Dodici fotografie analogiche scattate con la monumentale Polaroid 20×24 immortalano un apparato scenico mosso dall’energia di una bobina di Tesla: la corrente elettrica diventa coreografia, il sito archeologico si trasforma in un teatro di forze invisibili. Un omaggio al fuoco e all’amore — come le allegorie di Brueghel e Rubens che ispirano il titolo — ma anche una riflessione sulla nostra fede contemporanea nell’energia e nella produzione. Al Kunstverein Gartenhaus di Vienna, dove è in mostra fino al 15 novembre con Nights Out, tre macchine danzanti agitano parrucche umane in un buio quasi cabalistico: sensuali, patetiche, spettrali. Franceschini costruisce corpi che non esistono, ma insistono; presenze che si muovono secondo un ritmo alieno, come se la materia stessa reclamasse il diritto alla scena.
La sua è un’estetica postumana, ma con una grazia tutta barocca. Un cinema fatto di oggetti che tremano, di immagini che respirano, di luci che non smettono di accendersi e spegnersi come sinapsi. In un mondo dove tutto è già spettacolo, Anna ricorda che anche il silenzio di una macchina può essere una forma di racconto — e forse, la più vera di tutte.

La mostra Venere & Marte a Tivoli nasce come omaggio al Santuario di Ercole Vincitore. Come ha lavorato per far dialogare l’archeologia del luogo con la sua visione artistica?
È stato un colpo di fulmine. L’elettricità, in tutti i sensi, è stata la chiave. Il Santuario non è solo un capolavoro dell’architettura devozionale romana, ma nei secoli si è trasformato in fonderia, cartiera e poi nella centrale elettrica che per prima ha portato la luce a Roma. Tutto questo grazie ai salti d’acqua che alimentavano anche le vasche e le fontane di Villa d’Este, lì accanto. Molti visitatori si fermano ai giardini della Villa, ma la storia industriale del Santuario — la sua memoria “elettrica” — mi ha letteralmente esaltata. Mi ha subito fatto pensare che il progetto fotografico che mi aveva proposto il direttore Andrea Bruciati dovesse essere insieme analogico e animato. Per la parte analogica ho avuto un compagno d’eccezione: la Fondazione Polaroid, che grazie al suo 20×24 Project mi ha permesso di utilizzare la più grande macchina istantanea al mondo, la Polaroid 20×24. Scattare con quella “bestia” — accompagnata da John Reuters, uno dei pochi direttori della fotografia al mondo in grado di maneggiarla — è stata un’esperienza quasi mistica.
Le sue fotografie uniscono tecnologia, storia e immaginario. Cosa l’ha colpita di più di questo luogo e come ha deciso di raccontarlo attraverso la luce e il movimento?
Il Santuario è stato fonte d’ispirazione per gli “inferni” di Piranesi e per Marte disarmato da Venere, il celebre dipinto di Rubens e Brueghel il Vecchio. Nel quadro, ambientato proprio nelle tabernae del Santuario, intorno ai due amanti si accumulano strumenti tecnici: compassi, pinze, trapani, pentole… è l’officina di Vulcano che continua a forgiare anche dopo la guerra. Quella distesa di utensili mi ha colpita profondamente: così ho recuperato spazzacamini in metallo trasformandoli in bracciali per mani di manichino, ho galvanizzato tacchi da pole dancer accostandoli a puttini rubensiani recuperati da furti internazionali, ho assemblato corpi prostetici con morsetti e barre filettate. Mancava solo una cosa: l’animazione. Volevo l’elettricità vera. Così ho introdotto una bobina di Tesla, una piccola macchina spettacolare che genera fulmini blu, e ho lasciato che impressionasse la pellicola.

In Nights Out, in scena a Vienna, presenta delle “macchine danzanti” che sembrano avere una vita propria. Da dove nasce questa idea e che rapporto c’è tra il corpo umano e quello meccanico?
Tutto nasce da lontano. Il mio film di diploma alla Scuola del Cinema, quasi vent’anni fa, era un documentario d’osservazione su una fabbrica di manichini. Nessuna intervista, solo gesti e produzione. Da allora non ho più smesso di animare le cose. Nights Out, curata da Attilia Fattori Franchini e Ilaria Gianni, è la naturale evoluzione di quel discorso: tre pole dancers meccaniche che si muovono senza tregua in un loop infinito. Sono “macchine abbordabili”, ma la domanda è: chi guarda, desidera davvero abbordarle? Di chi è il desiderio, e verso cosa si rivolge? Lo spettacolo continua fino allo sfinimento strutturale delle danzatrici: una coreografia senza fine, un sogno di ogni performer… e forse anche di ogni macchina.

La mostra sembra una riflessione ironica ma profonda sul nostro rapporto con il lavoro e la performance. È una critica al capitalismo o una messa in scena dei suoi rituali?
Direi entrambe le cose. Mettere in scena i rituali del sistema economico in cui viviamo, esagerarli o semplicemente mostrarli, è già un modo per criticarli. Penso a Tempi moderni di Chaplin o a Nella colonia penale di Kafka. Il grottesco è una delle mie chiavi preferite: un grottesco sintetico, asettico, fatto di pochi materiali e movimenti ossessivi. Mi interessa quel punto in cui la ripetizione diventa estenuante — per la macchina e per chi guarda — e genera insieme fascinazione, fastidio e sorriso.
Ha iniziato come filmmaker: cosa l’ha portata a espandere il suo linguaggio verso la scultura e la performance?
A un certo punto i miei film si sono fatti sempre più densi, quasi immobili. Erano sculture che performavano per la macchina da presa. Poi ho deciso di liberarle: di lasciare che quegli oggetti agissero nello spazio reale, senza la mediazione dello schermo.

Nei suoi lavori ricorre spesso l’idea di “oggetto animato”. È una forma di empatia verso le cose o un modo per osservare gli esseri umani da un’altra prospettiva?
Entrambe. Gli oggetti industriali mi suscitano una certa pietà. Sono prodotti in milioni di esemplari, spesso senza grazia, fatti per essere usati e buttati. Ci accorgiamo di loro solo quando si rompono, e la nostra è un’attenzione arrabbiata. Lavorare con le cose mi permette di riflettere sulle nostre relazioni di potere: usiamo, consumiamo, sostituiamo. Gli oggetti ci somigliano più di quanto vogliamo ammettere.
C’è un oggetto o uno spazio che considera la sua ossessione visiva?
Gli espositori da vetrina. Mi affascinano gli oggetti “di servizio” che sostengono gli altri: basi, appendini, supporti. Sono la struttura invisibile del desiderio. Poi ci sono le parrucche: introdotte in un dispositivo meccanico, diventano un ponte tra l’umano e il tecnologico, corpi ibridi mai del tutto compiuti, e proprio per questo poetici.
Si muove tra cinema, arte visiva e ricerca teorica. Come riesce a mantenere un equilibrio tra questi mondi?
Con fatica, ma non potrei farne a meno. Studio per darmi metodo, il cinema mi educa allo sguardo, l’arte mi riporta alla materia. Ogni tanto mi rifugio in una sala semivuota — a Milano, d’estate, ho visto Presence di Soderbergh da sola in un pomeriggio grigio. È un lusso che mi tiene viva.

Ha viaggiato e lavorato molto. C’è un luogo che più di altri ha influenzato il suo modo di guardare?
Forse la mia città d’origine, Vigevano. Un luogo sospeso tra la campagna e l’industria calzaturiera, tra risaie e fabbriche. Mio nonno disegnava scarpe, mio padre macchine utensili. Credo che il mio sguardo venga da lì: da quella convivenza di grazia artigianale e precisione meccanica.
Se dovesse descrivere il suo rapporto con l’arte in tre parole?
Morta, di moda, moderna.
Finiamo con un evergreen: progetti per il 2026?
Una monografia con Lenz Press, una mostra personale a Parigi e, naturalmente, nuove macchine — un po’ diverse. Forse anche un film.

Intervista: Germano D’Acquisto
Ritratti: Ludovica Arcero
Installation Views Vienna: Kunstdocumentationcom. Courtesy of Kunstverein Gartenhaus
Installation Views Tivoli: Emanuela Fortuna \ Lucky’s Production. Courtesy of Villa D’Este
Total Look: Magliano
