03.09.2025 Venice #cinema

Yuri Ancarani

Sono un bastian contrario che mette in discussione le convenzioni

“Un buon film comincia dopo l’ultima inquadratura. Se te lo porti a casa e continua a farti riflettere, allora vuol dire che è potente”

«Dal barbiere un uomo dice quello che non direbbe mai. Avendo la lama del rasoio vicino alla gola. Anche se il barbiere è un amico, c’è sempre quella tensione che ti porta a dire la verità. Un po’ come fosse sempre l’ultimo giorno…», racconta Yuri Ancarani, 53 anni, unghia smaltate, mentre si lascia andare, seduto in poltrona, tra schiuma e specchio in una stanza dell’hotel Excelsior. È un’immagine che sembra già un’inquadratura, un modo tutto suo di stare dentro e fuori dal cinema allo stesso tempo. Perché se nel 2021 arrivava a Venezia in concorso con Atlantide, film notturno e ipnotico sui ragazzi della laguna, oggi il regista e videoartista ravennate si trova dall’altra parte: è stato infatti nominato nella giuria di Orizzonti, la sezione più coraggiosa della Mostra, quella che guarda al futuro intercettando tendenze, esordi e cinematografie minori con la forza delle novità che cambiano prospettiva. È un riconoscimento importante, che Ancarani, artista e regista italiano, noto soprattutto per le sue opere di videoarte caratterizzate da un approccio documentaristico, accoglie con orgoglio, ma anche con quello spirito da bastian contrario che lo porta sempre a contaminare i generi e a mettere in discussione le convenzioni. Dal suo barbiere di fiducia Leandro Scordio, originario di Gela, titolare di Barber&Soda a Milano, con la lama che sfiora la pelle, c’è tempo per parlare di cinema, di politica delle giurie, di film che restano in testa ben oltre i titoli di coda. Ma soprattutto c’è l’occasione per guardare, ancora una volta, quel futuro che lui dice di scorgere fissando un muro bianco.

Guardare cento film in dieci giorni. Cosa teme di più: annoiarsi davanti a un film o dover fingere che le sia piaciuto?

Di solito cerco di vedere ciò che penso possa interessarmi di più. Venezia è un’occasione straordinaria perché mi permette di scoprire opere che forse non avrei mai visto. Ti capita di imbatterti in film di ogni tipo, anche in lavori che credi non siano affini alla tua sensibilità. Alla fine lo consideri quasi un dono: sei felice di vedere cose che, senza la Mostra del cinema, non avresti mai incrociato. Perché in fondo tutto può arricchirti.

In giuria si premia il coraggio o la diplomazia?

Non esiste un’attitudine migliore dell’altra. C’è molta politica, perché devi saper portare avanti il tuo pensiero quando ti appassioni per un film, convincere qualcuno che magari non la pensa come te. Se sei solo, non ottieni nulla. Devi essere scaltro, e anche un po’ spavaldo. Diciamo che serve una diplomazia coraggiosa, il giusto equilibrio.

I suoi lavori, che spaziano dalle cave di marmo al trap veneziano, sembrano sempre in bilico tra arte e intrattenimento: si sente più sabotatore o equilibrista?

Mi sento soprattutto un bastian contrario. Quando mi muovo nel mondo del cinema mi chiamano artista, mentre nel mondo dell’arte mi chiamano regista. Di sicuro evidenzio le zone d’ombra del sistema e sono convinto che questa esasperata divisione tra i generi sia sbagliata. Io cerco di contaminare il più possibile gli ambienti.

Ha detto: “Io faccio sperimentazione, non devo per forza piacere”. C’è un’opera che oggi rinnega, non per forma ma per aver compiaciuto troppo?

No. Ma il problema è un altro. Mi interessa il pubblico e voglio che capisca ciò che sta guardando, ma non cerco di compiacere. Ho molta fiducia nello spettatore, penso che si possa osare creando cose nuove. Il mio è un percorso lento e ragionato, ma anche istintivo. Ho realizzato progetti in cui credo davvero, che posso difendere in ogni momento della mia vita.

Qualche progetto in cantiere?

La Mostra del cinema di Venezia è il posto perfetto per pensare al futuro. Qui incontri tutti. Mi è capitato di fare una splendida riunione di produzione alle tre di notte, in spiaggia, mangiando un toast con salsa rosa. E lì abbiamo gettato le fondamenta giuste per il prossimo progetto.

Se l’immagine è al centro di tutto, cosa resta fuori dall’inquadratura e perché secondo lei?

Un buon film comincia dopo l’ultima inquadratura. Se te lo porti a casa e continua a farti riflettere, allora vuol dire che è davvero potente. Se invece lo dimentichi, non ha raggiunto il suo scopo. Fuori dall’inquadratura resta tutto ciò che appartiene al pensiero dello spettatore: è lì che ognuno costruisce il proprio film, dopo i titoli di coda, quando se ne discute e lo si porta dentro di sé. Io faccio un film con delle immagini per lasciare al pubblico la possibilità di vederne altre, quelle personali, dopo.

Quando non filma, cosa guarda: Netflix o il muro bianco del suo studio?

Guardo oltre il muro bianco. Quando Leandro mi fa la barba e mi vede assorto, mi chiede: “Cosa stai guardando?”. E io gli rispondo: “Il futuro”. Ormai lo sa: tutte le volte che mi vede fisso nel vuoto, sto guardando il futuro.

Ritratti: Ludovica Arcero
Testo: Germano D’Acquisto

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