29.07.2025 Rome #arte

Pietro Ruffo

Ogni artista del passato è stato un contemporaneo del suo tempo

“La creatività è anche noia e dedizione. E’ in quei momenti, quando la mente vaga mentre le mani lavorano, che si apre un varco”

A metà strada tra un cartografo barocco e un naturalista visionario, Pietro Ruffo taglia, disegna, incide e sovrappone come se la realtà potesse ancora essere ricomposta. Romano, classe 1978, laureato in architettura, ma allergico alle rigidezze del costruito, ha fatto della carta – geografica, millimetrata, antica o inventata – il suo terreno d’elezione, costruendo mappe emotive in cui si incontrano skulls e botanica, costellazioni e conflitti, paleoclimatologia e utopia. Con un bisturi al posto del pennello, ha esplorato la deriva dell’Antropocene con l’ostinazione di uno scienziato e l’ironia di chi sa che la Storia, come il pianeta, tende a disfarsi. Le sue opere, finemente stratificate, sono frammenti di un immaginario che guarda all’umanità con la giusta distanza: quella, per intenderci, tra un satellite della NASA e un’incisione di Athanasius Kircher. Lo abbiamo incontrato all’interno del suo bellissimo studio capitolino.

E’ romano ed ha scelto di vivere a Roma. Questa città, con tutto il carico di storia e bellezza, la fa mai sentire schiacciato o la spinge a cercare un dialogo?

Roma è una città, con i suoi livelli sovrapposti, coi secoli impilati l’uno sull’altro, coi linguaggi architettonici che si mescolano. È un continuo confronto con il tempo e con chi ci ha preceduto. Quando guardi certi edifici pensi agli architetti e agli artisti che li hanno creati: avevano la nostra età, le nostre paure, le nostre fragilità. Eppure hanno lasciato cose meravigliose. Questo ti dà un senso di responsabilità, ma anche di possibilità. Ti fa pensare che anche noi possiamo – e dobbiamo – provare a fare qualcosa, anche rischiando. Perché è così che si lascia un segno.

La sua è spesso una Roma geologica, climatica, mitologica. È un modo per restituirle una complessità che oggi tendiamo a dimenticare?

Assolutamente. Anticamente queste tre discipline erano connesse. Roma oggi la percepiamo come una città cristallizzata, ma in realtà è sempre stata al centro di continui cambiamenti. Un territorio che un tempo era sotto il livello del mare, poi una foresta tropicale – sono state trovate ossa di giaguari, elefanti, rinoceronti. Poi arrivano le costruzioni della Roma imperiale, la Roma medievale, quella rinascimentale, barocca e infine quella contemporanea. Tutto questo è presente nel mio lavoro. Ovviamente non dev’essere mai qualcosa di didascalico: si tratta di suggerire stimoli visivi che, una volta usciti, ti permettono di guardare la città con occhi diversi.

Quanto conta il tempo nel suo lavoro?

La creatività non è solo scintilla e ispirazione: è anche noia, ripetizione, dedizione. Ed è in quei momenti, quando la mente vaga mentre le mani lavorano, che si apre un varco. Questo non significa che le opere realizzate in un’ora siano meno valide – anzi, ci sono artisti che in un’ora fanno capolavori. Il tempo non è un criterio di giudizio per l’arte, ma è fondamentale per la pratica individuale. E nel mio caso è preziosissimo.

In passato ha collaborato con Dior. Cosa la lega alla moda?

Il mondo della moda è legato alla rapidità. Ma quando si parla di haute couture, lì ritrovi la stessa lentezza artigianale: un abito può richiedere uno o due mesi di lavoro, ogni cucitura è frutto del sapere di più mani. È stato anche per questo che mi sono trovato bene in quel mondo: ci siamo riconosciuti in quella dimensione.

Programmi per i prossimi mesi?

A settembre inauguro un’installazione al Museo Etrusco di Villa Giulia, a Roma. Ho realizzato una grande installazione nei portici, e sono molto contento perché dovrebbe diventare permanente, entrando a far parte della collezione del museo. Sempre a settembre, ci sarà anche l’inaugurazione di un’opera che ho realizzato per il Palazzo del Quirinale. È un posto simbolico, con una storia lunghissima, e il fatto che da qualche anno abbia aperto al contemporaneo è un segno bellissimo: vuol dire riconoscere che la storia non si è fermata all’Ottocento, e che artisti e architetti continuano a creare e lasciare tracce. E poi, a novembre, ho in programma una mostra a Parigi, alla galleria Pron, 75, rue du Faubourg Saint-Honoré, con cui collaboro da anni. Questo progetto sarà più incentrato proprio sulla capitale francese.

Libro sul comodino?

Ne ho sempre un paio. Il primo si chiama “Ecofascismo”, è uscito l’anno scorso, ed è un saggio di Francesca Santolini. L’altro è “La croce e la sfinge” di Pierluigi Panza, che racconta la storia di Giovan Battista Piranesi. Un artista incredibile, forse il più grande incisore che abbiamo avuto. Ancora non l’ho iniziato, ma da come viene descritto sembra un vero “scalmanato” del suo tempo. E mi piace pensare che ogni artista, anche del passato, sia stato a tutti gli effetti un artista contemporaneo nel proprio tempo. Noi spesso li guardiamo nei musei e li pensiamo come figure quasi eteree, ma in realtà erano persone piene di contraddizioni, nevrosi… proprio come noi. E questa cosa fa vibrare la storia dell’arte. Capire come certe opere nascano, anche per caso o per fortuna, da incontri inaspettati, è qualcosa di profondamente umano. E molto bello.

 

Ritratti: Niccolò Campita
Testo: Germano D’Acquisto

More Interviews
Vedi altri