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15.04.2023 #design

Stefano Seletti

Ecco come nasce il mio design rivoluzionario

“La creatività è innovazione. Bisogna sempre fare qualcosa che nessuno ha mai fatto prima”

È da sempre sinonimo di irriverenza e ironia. Merito di un design originale e spiazzante, fatto di accostamenti arditi e di richiami al mondo dell’arte e della fotografia. Stiamo parlando di Seletti, marchio fondato nel 1964 a Cicognara, in provincia di Mantova da Romano Seletti e oggi diventato quasi un inno alla creatività libera e originale. A guidare l’azienda è Stefano Seletti. Classe 1972, imprenditore tanto visionario quanto coraggioso, ha trasformato il brand in una delle aziende di design più note e riconoscibili del pianeta. E’ lui stesso a raccontarci come ha fatto.

Come nasce il marchio Seletti? Tutto parte dai viaggi di suo padre, Romano Seletti, in Cina…

Sì è così. Tutto inizia in Cina nel 1972. E se consideriamo che Mao muore nel 1976 ci rendiamo conto che stiamo parlando di un tempo in cui la Cina comunista era alla sua massima espressione. Era un luogo difficilissimo da affrontare per un occidentale perché aveva parametri diametralmente opposti ai nostri. Si dormiva circondati dai topi, non esisteva l’aria condizionata. Mio padre è stato aiutato a superare queste difficoltà grazie alla sua origine contadina, molto povera. Quando si è trovato davanti a quell’estrema povertà l’ha saputa gestire perché la conosceva quasi alla perfezione.

Ricorda qualche aneddoto di quel periodo?

Sì, ricordo che lo vedevo partire con una scatola di biscotti in valigia. Era per i topolini che avrebbe trovato nella sua camera d’albergo. La piazzava sul comodino, così i topi si mangiavano i biscotti e lasciavano in pace lui.

Perché proprio la Cina?

Perché è da lì provenivano i primi prodotti dell’Arts and Craft. I cestini portapenne di bambù, i sottopentola, gli strofinacci in cotone a nido d’ape, gli schienali per auto in mais. La grande forza di quel Paese era la manodopera e quindi produzioni a prezzi altamente competitivi. Oggi non è più cosi. Se cerchi la manodopera a basso costo devi andartene in Vietnam, in Cambogia o nelle Filippine.

Ma lei quando è entrato in gioco?

Ho iniziato a seguire mio padre a 17 anni nel 1987. Ricordo che all’epoca in Cina ci si muoveva ancora in bicicletta, mentre le auto erano rarissime. Eppure, visitando questo Paese due o tre volte all’anno scoprivo che la sua incredibile capacità di evolversi. Ogni sei mesi c’era una novità. Un anno c’erano solo bici, l’anno dopo solo auto. Un anno tutti suonavano il clacson, l’anno dopo nessuno lo faceva più. Un anno l’hotel era pieno di prostitute, l’anno dopo non ce ne erano più. Questo mi ha permesso di vivere passato presente e futuro nello stesso identico momento. Ho imparato a conoscere questa loro leggendaria capacità produttiva che cambiava alla velocità della luce. Così ho deciso di fare lo stesso anche io e ho provato a trasformare le cose pur non essendo un designer.

Quale collezione ha rappresentato il punto di svolta?

“Estetico quotidiano”. E’ lei che ha traghettato la Seletti dalla grande distribuzione organizzata di ieri al retail di oggi. Tutto è nato in modo elementare: ho semplicemente portato il bicchierino di plastica da caffè o il vassoietto di carta da pasticceria a una fabbrica che faceva porcellana e ho chiesto di riprodurlo. Il prodotto era già disegnato, bastava solo realizzarlo. In questo modo è nata una linea di Art de la table perfetta per negozi come Colette o Hi Tech che solitamente non trattavano Art de la Table.

La parola-simbolo dell’azienda è (R)Evolution, perché?

Perché ci guida un modo di pensare del tutto inedito. E’ proprio questa filosofia che ci ha permesso di coinvolgere altri settori merceologici, come l’illuminazione. Sapevo che non potevamo competere con colossi come Artemide, Flos e Foscarini così abbiamo pensato di illuminare una stanza usando l’emozione. Da qui è poi nata l’idea del Neon Font, l’alfabeto luminoso o di mettere nelle mani di una scimmietta una lampadina. La (R)Evolution è la nostra filosofia primaria.

Il marchio oggi è diventato un punto di riferimento per molti creativi come Maurizio Cattelan, Studio Job, Elena Salmistraro e il fotografo Pierpaolo Ferrari. Cosa è per lei la creatività?

La creatività è essenzialmente innovazione. Bisogna sempre fare qualcosa che nessuno ha mai fatto prima. Me lo insegnato proprio Maurizio Cattelan. Per lui e anche per noi è una sfida continua.

Come si fa a creare complementi d’arredo irriverenti senza mai scadere nella volgarità? Il crinale è assai sottile…

Sottilissimo. Ma è un talento che sono riuscito ad affinare nel corso degli anni, anche facendo errori. Affiancarsi a menti geniali come quelle di Toilet Paper o di Studio Job, mi ha aiutato a rischiare.

Ricorda la prima volta che ha incontrato Maurizio Cattelan e Pierpaolo Ferrari?

Sì, mi erano venuti a trovare ed erano rimasti colpiti dai pentolini del latte che mio padre importava negli anni 70. Mi dissero: “Sarebbe bello applicare su un oggetto con una memoria così ampia un’immagine tanto contemporanea e irriverente”. Da qui è nata una collezione presentata prima da Rossana Orlandi e poi finita addirittura al MoMA di New York. Quell’incontro è stato un vero cortocircuito perché non si era mai vista una semplice tazza di metallo realizzata da un’azienda cool e abbinata a una foto firmata da un artista finire negli scaffali delle boutique più trendy del mondo a soli 12 euro. Quell’idea ha distrutto il concetto di gadget permettendoci di dar vita a qualcosa di mai visto prima.

Producete vasi, bicchieri, eppure il lighting è il settore più trainante in termini di fatturato. Cos’hanno di speciale le vostre luci?

Sono emozionali. Abbiamo fatto un’indagine e abbiamo scoperto che moltissime persone hanno scelto di dare un nome alla Monkey Lamp. Ebbene, arrivare a dare un‘identità a un oggetto inanimato è la cosa più bella che possa esistere.

Mi tolga una curiosità, ma perché uno dovrebbe comprarsi uno specchio con delle carte da gioco infilate tra le natiche? 

Primo perché è qualcosa che non è mai esistito. Secondo perché è elegante e al tempo stesso provocatorio e ti fa sentire diverso. I nostri oggetti non sono più belli o più brutti di altri. Ma sono diversi. Possono piacere o non piacere. A mia madre, per esempio, non piacciono (Ride). Ma chi ci apprezza, ci ama davvero alla follia. Abbiamo una community con cui interagiamo ogni singolo giorno dell’anno. E’ come una famiglia allargata.

Vi hanno definito i pirati antiaccademici del design. Cosa c’è di male ad essere accademici?

Nel momento in cui una cosa ti viene insegnata appartiene già al passato. L’essere accademici rischia di tenerti un po’ troppo legato al passato.

Come spiegherebbe a un bambino la differenza che c’è fra l’arte e il design?

Proverei in tutti i modi a fargli capire, che alla fine, non c’è poi tutta questa differenza.

L’oggetto di design per cui farebbe follie?

La libreria di Ettore Sottsass per Memphis. Perché è un errore meraviglioso.

Una cosa da fare assolutamente prima di morire?

Ce ne sono mille.

Ha girato in ogni angolo del mondo eppure ha scelto di vivere a Cicognara di Viadana, in provincia di Mantova. Come mai?

Perché le mie radici sono profonde. Perché lì ho la sede della Seletti. Il lavoro è la mia vita e mi offre l’opportunità di viaggiare, di divertirmi e di conoscere persone speciali. Per questo ho voluto trasformare la sede di Cicognara in uno show-room dove è molto bello lavorare.

La forma più armonica in natura?

La forma dell’infinito.

Progetti futuri?

Ci sono tantissime cose in ballo. Dalla mia nuova linea di abbigliamento Ritos, dove ai capi ho scelto di applicare passamanerie tipiche del mondo dell’arredamento fino alla collezione Magna Grecia, realizzata in terracotta insieme all’artista calabrese Antonio Aricò e presentata di recente a Parigi.

Cosa sognava di fare a 14 anni?

Beh, a 14 anni non avevo sogni particolari. Sognavo solo di andare in parrocchia a giocare. Ho iniziato a sognare davvero a 17 anni,  dopo quel famoso viaggio con mio padre. In 40 giorni abbiamo attraversato l’India, la Thailandia, le Filippine, la Cambogia, il Vietnam. E’ stato sconvolgente. Ricordo che continuavo a ripetermi: ma davvero fuori da Cicognara c’è tutto questo? E’ in quel momento che è scattato in me il desiderio di esplorare sia il mondo che i confini della creatività. Il tutto cercando sempre di  perseguire un obbiettivo: accontentare il gusto di una grande varietà di persone. 

 

Intervista : Germano D’Acquisto

Foto : Ludovica Arcero

 

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