MILLE
L’istinto viene prima, ma la consapevolezza arriva con lo sguardo degli altri
“La musica è un contenitore vastissimo, non fatto solo di parole e melodie. C’è anche il corpo. Chi canta, canta con tutto il corpo”
C’è chi scrive canzoni come se cucisse abiti: su misura, con amore per il dettaglio, ma senza paura di tagliare dove serve. E poi c’è chi, come MILLE, fa entrambe le cose: canta, cuce, recita, vive. Nome d’arte di Elisa Pucci, romana, musicista prestata al teatro, è una di quelle voci che ti sorprendono per come si insinuano nelle pieghe della lingua italiana e ti restano addosso come un profumo di teatro e zucchero filato. Un’artista che, per raccontare sé stessa, ha scelto di firmarsi con un numero, come a voler suggerire che è impossibile ridurla a una sola definizione. Dopo l’esperienza come frontwoman dei Moseek, finalisti a X Factor nel 2015, Elisa decide di mettersi in proprio: nasce così MILLE, progetto solista con cui si svincola da qualsiasi etichetta – discografica, musicale, esistenziale – per dar voce alle sue tante anime. Scrive in italiano e il suo modo di farlo è tutto tranne che tradizionale: è giocoso, graffiante, lucido, sensuale. E quando canta, tra ironia tagliente e struggimento rétro, sembra sempre un po’ su un palco e un po’ in una confidenza notturna. Nel 2023 ha pubblicato il primo EP “Quanti me ne dai” e da lì in poi non si è più fermata: oltre 70 date live, premi, aperture illustri (Max Gazzé, Carmen Consoli), fino alla consacrazione del Concerto del Primo Maggio al Circo Massimo. Oggi torna con un nuovo album in arrivo (Risorgimento, in uscita a metà settembre) e due singoli che già anticipano il mood: “Il tempo, le febbri, la sete” e “C’est fantastique”. L’abbiamo incontrata all’interno dell’Urban Hive Hotel di Corso Garibaldi a Milano a pochi giorni dal suo tour estivo – che la porterà dal capoluogo meneghino (il 28 giugno sarà all’Arco della Pace per il Pride) al Sud, passando anche per la francese Avignone (il 19 luglio) mentre in autunno anche alcune date nei club: 11 novembre a Milano (Santeria Toscana) e 12 novembre a Roma (Monk) – per farci raccontare, tra una battuta e una vertigine, chi è davvero la ragazza dai mille volti.
Perché ha scelto di chiamare il suo primo album “Risorgimento”?
Sono molto legata a questa parola, per diversi motivi. Intanto, etimologicamente significa “tornare alla vita” — e in un momento storico particolare, sia collettivo che personale, mi sembrava la parola giusta. Anche come forma di auto-aiuto: tornare alla sorgente, al movimento. E poi c’è il riferimento ai moti risorgimentali, un’epoca che mi affascina fin da quando la studiavo alle elementari. Il Risorgimento è un moto di un passato che non si rinnega, ma si tiene a mente, per stare in un presente in movimento, con lo sguardo rivolto al futuro. Per me è una condizione necessaria per affrontare le cose. Anche l’estetica di quel periodo mi affascina: le cornici, le grafiche, simboli che ho cercato di richiamare anche nelle copertine dei miei singoli. E poi c’è Garibaldi… Io mi chiamo Mille, e mi piace unire i puntini che la vita mi mette davanti. Non ho scelto Risorgimento come titolo a tavolino, è stata una presa di coscienza. Garibaldi, in fondo, è stata una popstar, la prima italiana forse: quando arrivò a Londra, 500.000 persone ad accoglierlo! E mio padre mi ha sempre chiamata “Garibaldi” per il mio modo di essere. Tutto si è connesso in modo naturale.
I suoi brani sembrano scene da film, piccoli cortometraggi cantati. Come costruisce il legame tra parole, immagini e suoni? Parte da un’immagine, da una frase, da un’emozione…?
Di solito le frasi le ho già in testa musicate. Scrivo molto spesso a mente, senza lo strumento davanti. Poi, quando le intuizioni diventano tante, prendo chitarra o pianoforte e le concretizzo. Ma nascono già legate: testo e melodia insieme, magari registrate al volo sul cellulare. Cerco di fissarle, di congelarle mentalmente. È come se le canzoni mi venissero a trovare e io dovessi solo accoglierle.
Chi ti ascolta percepisce nella sua voce un’eco d’altri tempi, come se arrivasse da una vecchia autoradio. Cosa c’è di consapevole e cosa invece di istintivo in questo stile retrò ma mai nostalgico?
C’è tutto. Sono così, non potrei essere altrimenti. L’istinto viene prima, ma la consapevolezza arriva con lo sguardo degli altri. Quando più persone ti fanno notare la stessa cosa, quella cosa diventa reale. Però tutto nasce da un’urgenza, da qualcosa che mi appartiene in modo naturale. Non è una costruzione, è semplicemente ciò che sono.
Quanto conta per lei l’estetica visiva nel racconto musicale?
Tantissimo. La musica è un contenitore vastissimo, non fatto solo di parole e melodie. C’è anche il corpo, c’è il visivo. Chi canta, canta con tutto il corpo, non solo con la voce. Quando vai a un concerto, non dici “vado a sentire”, ma “vado a vedere” un artista. E io sono attratta da tutto ciò che si può toccare, guardare. Quando scrivo, mi immergo completamente in quello che sto creando. Vedo la scena, la tocco. L’estetica per me è parte integrante del racconto musicale.
Ha un passato anche da attrice, a partire da X Factor. Quanto si porta dietro di quell’esperienza? E cosa invece ha lasciato andare?
X Factor è stata un’esperienza incredibile e molto divertente. Avevamo la possibilità di realizzare qualsiasi idea ci venisse in mente. Tipo: “Immagina di cantare su una mega bilancia”. E loro lo facevano davvero! Per quanto riguarda il teatro, in realtà non è solo un passato: è anche un presente. Sto portando in scena “La Locandiera” in versione rivisitata, ed è una cosa che mi diverte tantissimo. Non credo di aver lasciato andare nulla: modifico, miglioro, ma non abbandono. Le esperienze si sommano, e ogni cosa che faccio oggi è anche il frutto di quelle che ho fatto prima.
Quindi non solo un passato da attrice, ma anche un presente…
Esatto! Ho iniziato l’anno scorso con “La Locandiera”, ma già anni fa avevo fatto qualche piccola cosa dopo l’università. Ora siamo in tour, abbiamo fatto tappa in Svizzera, a Milano, Bergamo, Brescia. E spero si riescano a incastrare le date per continuare a girare. Non è sempre facile, ma ci proviamo.
Si definisce “una somma di piccole catastrofi e grandi rivoluzioni”. C’è una rivoluzione, piccola o grande, che il Risorgimento ha già provocato in lei?
Beh, se devo essere precisa e andare proprio a vedere la cronologia delle cose, direi che a gennaio ho rivoluzionato completamente la mia vita. Ho cambiato sia dal punto di vista lavorativo che sentimentale, ho cambiato casa… insomma, questo 2025 è stato un Risorgimento a tutti gli effetti, su tutti i fronti e anche in tempi strettissimi. Le canzoni dell’album sono tutte fotografie di questo periodo: l’ho scritto tra settembre, quando ho iniziato questo percorso di evoluzione – e anche di rivoluzione – e febbraio. Questo è stato.
Chi sono le sue muse?
Ce ne sono tante. Molto spesso sono persone che fanno anche altre cose, non solo arte. La prima, inconsapevolmente, è mia madre. Come icona di stile, probabilmente, anche perché le somiglio tantissimo. Abbiamo gli stessi capelli lunghi, un fare un po’ malinconico, molto Mina. Lei mi ha insegnato a cantare… non nel senso tecnico, perché non c’entra nulla con il mondo della musica, ma nel modo in cui cantava da sola, affacciata alla finestra dopo pranzo, mentre si fumava una sigaretta e canticchiava Gino Paoli. Quel suo modo lì è rimasto per me il modo giusto di dire le parole in una canzone. Poi c’è Raffaella Carrà: per il personaggio, per i messaggi, per la sua energia. E Patty Pravo. E Caterina Caselli. E poi c’è Vali Myers. Lei è stata una ballerina mancata, un’artista “randagia” – diciamo così – vissuta a cavallo tra la prima e la seconda metà del Novecento. Non supportata dalla famiglia, ha cominciato a ballare nei caffè di Parigi, poi in Germania, poi in Italia. Si è stabilita a Positano, dove tutti la chiamavano “la strega buona”. Aveva un’estetica pazzesca: capelli rossi, occhi intensi, un trucco quasi tribale, faceva dei disegni incredibili, un po’ magici. Prima solo in bianco e nero, poi col colore, quando anche lei ha attraversato una trasformazione. Mi affascina tutto il suo mondo. Questo amore con un altro artista maledetto, queste vite un po’ sbilenche che però ci piacciono tanto. Lei mi ispira. Così come Vivienne Westwood. E ovviamente Frida Kahlo – ce l’ho anche tatuata. Con Diego Rivera, tutta la loro storia. Queste donne, e guarda caso sono tutte donne, mi accompagnano.
Se dovesse raccontare MILLE a qualcuno che non l’ha mai ascoltata con una sola canzone del suo album – o del suo repertorio – quale sceglierebbe?
Un pezzo che non è ancora uscito. Una canzone che non ho ancora pubblicato… si intitola “Posologia”.
Nelle sue canzoni c’è molta attenzione alla lingua, ai dettagli, ai silenzi quasi cinematografici. Quanto tempo dedica alla scrittura e come capisce quando un brano è davvero finito?
Generalmente, quando scrivo, vorrei che la fase si concludesse nel più breve tempo possibile. Perché poi c’è tutta la parte di arrangiamento, produzione, mix… ed è una parte che mi annoia tantissimo. Capisco che un brano è finito quando riesco a cantarlo dall’inizio alla fine e mi sento appagata. Però adesso c’è una responsabilità maggiore, perché questo è anche il mio primo album. E ho la fortuna di avere dei confronti esterni, oltre alla mia testa e a quella del mio socio Davide Malvi, nome d’arte Unberto Primo, con cui scrivo, produco, eccetera eccetera.
Il film più bello di tutti i tempi?
“Via col Vento”.
Per quale attore aveva una cotta al liceo?
Joshua Jackson di “Dawson’s Creek”. Ma chi è che non aveva una cotta per lui?
All’inferno, suonano sempre la stessa canzone. Quale?
“Obsesión” degli Aventura.
Se non fosse diventata artista…
Avrei lavorato nel mondo della grafica. O avrei fatto la psicoterapeuta. O entrambe. Oppure sarei diventata una vagabonda. Una barbona. Una clochard…
Ritratti: Ludovica Arcero
Intervista: Germano D’Acquisto
Special Thanks to Urban Hive Hotel Milano