Wangechi Mutu
Creo per trasformarmi: il mio studio è un bozzolo dove cambio pelle
“Il mito ci ricorda che immaginare è sano. Che serve lasciare zone aperte nella mente. Il mito coltiva empatia, coraggio, delicatezza”
Ci sono artisti che entrano nei musei in punta di piedi. Altri che li smontano, li riassemblano e li fanno parlare una lingua nuova. Wangechi Mutu fa un po’ entrambe le cose: con la grazia di chi conosce il peso della storia e il coraggio di chi non ha paura di rimetterla in discussione. Alla Galleria Borghese — il tempio barocco per eccellenza — arriva dal 10 giugno fino al 14 settembre la sua mostra “Poemi della terra nera”, e qualcosa si muove. Letteralmente. Sculture che pendono dal soffitto, figure ibride che sembrano spuntare dalla terra, cariatidi contemporanee che guardano il museo con la calma di chi sa aspettare. Mutu non impone, ma insinua. Entra nel dialogo visivo con Canova, con Bernini, con i busti e le allegorie, e lo fa usando bronzo, piume, fango, acqua, video. Materiali vivi, mobili, instabili. Altro che marmo eterno: qui si parla di trasformazione, di perdita, di rinascita. Keniana di nascita, americana d’adozione, Mutu ha fatto del collage — mentale, culturale, materico — la sua lingua madre. E il suo sguardo sulle cose è chiarissimo: il femminile non è un concetto, è una forza. Le sue figure non sono simboli, sono presenze. Portano dentro storie antiche, radici che si intrecciano, rabbie non dette, e anche una certa ironia — perché sì, anche le dee possono avere senso dell’umorismo. Nel cuore barocco di Roma, questa mostra è tutto fuorché decorativa. È una messa in discussione elegante, silenziosa e potentissima. Una terra nera che, più che coprire, rivela. Ecco cosa ci ha detto Wangechi tra le sale del museo e poi fuori, tra i Giardini Segreti.
Come ha fatto a far convivere la sua poetica artistica con un luogo storico come Galleria Borghese?
Wangechi Mutu:
Amo i materiali liquidi, i pigmenti, gli inchiostri, le terre dense e porose, che uso nei miei collage, nelle sculture e persino nelle performance. Ho scelto di muovermi in un luogo storico come Galleria Borghese come all’interno di un qualcosa a metà strada tra la capoeira e un rito, sempre in uno stato di flusso. Presente, sì, ma mai bloccato.
Molte sue opere si muovono tra reale e immaginario. Che cosa può insegnarci il mito in un’epoca come la nostra così condizionata dalla tecnologica?
Wangechi Mutu:
Il mito ci ricorda che immaginare è sano. Che serve lasciare zone aperte nella mente, spazi sospesi. Il mito coltiva empatia, coraggio, delicatezza. Qualità preziose in un mondo diventato troppo razionale.
Da Matisse a Picasso, l’arte africana ha ispirato intere generazioni di artisti occidentali. Secondo lei questa influenza ha mantenuto intatta la sua forza perfino ai giorni nostri?
Wangechi Mutu:
Fin dall’inizio dei tempi, l’arte africana ha ispirato l’Occidente a ripensare se stesso. Gli antichi egizi hanno insegnato ai greci, i greci ai romani, e così via. Ma tutto parte da lì: dall’Africa. L’arte, la scienza, la poesia, la musica – tutto si è nutrito di quella terra. Ancora oggi, nonostante tutto, l’Africa è una fucina di idee e materiali ambiti, spesso saccheggiati.
Un ultima domanda, legata alla metamorfosi, elemento cardine che torna spesso nei suoi lavori. Come si sta trasformando Wangechi Mutu, come artista, donna e cittadina del mondo?
Wangechi Mutu:
Io creo per trasformarmi e per crescere. Il mio studio è un bozzolo, un luogo dove posso isolarmi, riflettere, cambiare pelle. È un ciclo continuo: morire, rinascere, ricominciare. Sempre.
Foto: Niccolò Campita
Intervista: Germano D’Acquisto