Sebastiano Pigazzi
Da attore mi piace esplorare: penso sia fondamentale per chi fa questo mestiere
“Chi recita deve avere una certa riservatezza. Altrimenti, ciò che fai sullo schermo si confonde con l’idea che la gente si fa di te”
C’è qualcosa in Sebastiano Pigazzi che sfugge alle classificazioni rapide: il cognome, per cominciare, evoca atmosfere italiane e riverberi cinematografici, ma la sua voce — pacata, americana — racconta un’altra traiettoria. Nato nel 1996 e cresciuto tra gli Stati Uniti e il peso discreto di un’eredità familiare importante (è il nipote di Bud Spencer), Pigazzi si è fatto strada a piccoli passi, lontano dalle scorciatoie e più vicino alla gavetta che alla nostalgia. Dopo l’esordio con “We Are Who We Are” di Luca Guadagnino, è tornato sotto i riflettori con “And Just Like That…”, interpretando Giuseppe, un poeta italiano che fa breccia nel cuore di Anthony Marentino. Oggi, mentre debutta la terza stagione della serie, Pigazzi si racconta con ironia e misura: del mestiere di attore, delle sue radici, dell’amore per il teatro, ma anche della fatica di scegliere una strada in salita, tra Shakespeare e silenzi, schivando l’ombra lunga del nonno. Con la grazia di chi non ha fretta, e una voce che parla da sé.
In “And Just Like That…” interpreta Giuseppe, un poeta che entra nella vita di Anthony. Come si è preparato per questo ruolo e cosa l’ha colpita di più del suo personaggio?
È una persona molto matura per la sua età. E soprattutto è uno che riesce a entrare con discrezione in un gruppo complicato, pieno di sfumature. Che poi è un po’ quello che ho dovuto fare anch’io, arrivando sul set di una serie così iconica. Come mi sono preparato? Eh, guarda… è complicato. Però dai, tutti conosciamo almeno una persona così, no? Quei personaggi veri che ti restano impressi. Io ho fatto un miscuglio: un po’ di gente che conoscevo, un po’ di suggestioni dei registi, e ho messo insieme Giuseppe.
Entrare nell’universo di “Sex and the City”, così iconico e amato, dev’essere stata una bella sfida. Come ha vissuto l’ingresso in un cast così affiatato e sotto gli occhi del mondo?
Con leggerezza. Cerco di non pensarci troppo, davvero. Più riesco a essere “ignorante” nel senso buono, meglio è. Così riesco a vivere tutto con naturalezza. Alla fine, anche loro sono persone normali. Quando vado sul set, li vedo così. E riesco a parlarci, come si parla tra persone.
Il suo debutto importante è stato con Luca Guadagnino. Cosa le ha lasciato quell’esperienza?
Ho capito subito cosa vuol dire lavorare con grandi attori e grandi registi. È un’altra cosa. Sul serio. È come passare dall’aula al campo. I corsi li puoi fare finché vuoi, ma è sul set che impari davvero: cosa puoi fare, cosa non devi fare, quanto margine di libertà hai. È stato un vero corso accelerato. E poi mi ha lasciato un’amicizia con Luca.
Siete rimasti legati?
Sì, abbiamo un buon rapporto.
E’ cresciuto lontano dall’Italia, ma porta un cognome che evoca subito un’icona del cinema popolare. Che rapporto ha con l’eredità di Bud Spencer?
È un onore, ovviamente. Anche se… a volte pesa. Soprattutto quando la gente pensa che io sia un raccomandato. Magari! Se in casa mi avessero dato una mano a diventare attore, ti pare che mi lamentavo? Invece no. Zero scorciatoie. Quindi sì, è una cosa grande, ma non c’entra nulla con quello che faccio oggi.
Ha raccontato che la sua famiglia inizialmente era scettica sulla sua scelta di fare l’attore. È cambiato qualcosa oggi?
Mah… non troppo. Sono sempre scettici. Solo che, diciamo, ora mi rompono un po’ meno. Però appena stai qualche giorno fermo, senti già le voci. È normale, dai. In fondo è anche quello che ti tiene con i piedi per terra.
Ha lavorato tra teatro, cinema, tv. C’è un linguaggio che sente più suo o le piace l’idea di continuare a esplorare?
Mi piace molto esplorare. Penso sia fondamentale, per chi fa questo mestiere. Però se devo scegliere, direi che cinema e teatro sono i miei due grandi amori. Forse il teatro, per me, ha qualcosa in più… come attore e come regista. Mi dà la possibilità di creare qualcosa di più mio, più personale.
In un’epoca in cui l’esposizione social sembra parte del lavoro dell’attore, lei invece è molto riservato. È una forma di protezione o una scelta precisa?
Non lo so. Non mi va, onestamente. Credo sia importante, soprattutto per un attore, avere una certa riservatezza. Se no, quello che fai sullo schermo rischia di confondersi con l’idea che la gente si fa di te. E finisce che “quello è quello che prende il caffè sotto casa mia”. No, bisogna mantenere un po’ di distanza.
C’è un luogo, una città, un posto dove si sente particolarmente ispirato?
In realtà li cambio spesso. Ogni luogo è speciale per un certo periodo, poi mi annoia. Allora ne cerco un altro. Funziona così, per me.
All’inferno danno sempre lo stesso film. Qual è?
Ah, tosta questa… “Inception”. Lo so che a tanti è piaciuto, ma a me non ha fatto impazzire.
Guardando avanti: c’è un sogno professionale che non ha ancora realizzato? Un ruolo, un regista, una storia che vorrebbe interpretare?
Ce ne sono tanti. Però se proprio devo fare un nome: Paul Thomas Anderson. E poi, sì, vorrei dirigere un film. È un sogno che ho da un po’.
Cosa sognava di fare a 15 anni?
Credo l’attore, già allora. Però ho cercato di rimandare la decisione il più possibile, nel caso mi venisse una passione diversa. Non è mai arrivata. A quindici anni ero un disastro, giocavo solo ai videogiochi. Forse quello volevo fare: giocare e basta.
Chiudiamo con un gioco: la sua casa va a fuoco ma può salvare solo un oggetto. Cosa si porta via?
Una foto. Quella del mio bisnonno insieme a Orson Welles. Io sono un grande fan di Welles, e quando ho trovato quella foto — che non sapevo nemmeno esistesse — è stato un momento assurdo. L’ho incorniciata subito.
Intervista: Germano D’Acquisto
Ritratti: Ludovica Arcero
Total Look: Tod’s