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31.03.2022 #arte

Artur Zmijewski

La paura mangia l’anima

“Artista, non attivista.

Una delle figure più radicali della scena artistica polacca, Artur Żmijewski ha sempre esplorato la natura del male. Le sue immagini in bianco e nero riflettono la sua preoccupazione per le attuali questioni socio-politiche: il sistema di potere e oppressione, la natura della violenza e la tendenza quasi istintiva degli esseri umani a prendere strade sbagliate e a commettere peccare. L’artista stabilisce un elaborato sistema di rappresentazione, in cui la paura si dispiega attraverso il controllo sociale, l’autocensura e diventa il padrone delle nostre vite. Żmijewski ha esposto in personali e mostre collettive in musei e istituzioni di tutto il mondo, tra cui documenta 12 e 14, la Biennale di Venezia, il MoMA di New York e il Museo d’Arte di Tel Aviv. Nel 2012 ha curato la settima edizione della Biennale d’Arte Contemporanea di Berlino, intitolata Forget Fear, un omaggio agli artisti che non hanno mai paura di affrontare il male e di lottare per la verità, creando opere d’arte che diventano eventi politici. La sua nuova mostra personale al PAC-Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano, “Fear Eats the Soul”, presenta una selezione delle sue opere più significative e tre nuovi lavori che Żmijewski ha creato appositamente per questo evento, tra cui un cortometraggio ispirato al cinema scientifico del neurologo Vincenzo Neri. Si tratta della sua prima mostra personale in Italia, curata dallo storico dell’arte italiano Diego Sileo.

Ci racconti le sue ultime opere, i pezzi commissionati dal PAC-Padiglione d’Arte Contemporanea, qual è la storia che c’è dietro?

La prima è una serie fotografica commissionate dal PAC-Padiglione d’Arte Contemporanea e si chiama REFUGES/CARDBOARDS. Sono ispirate alla crisi dei rifugiati scatenatasi all’inizio del 2021 al confine tra Polonia e Bielorussia. Luogo che è la terra di nessuno, un limbo, dove i rifugiati rimangono e muoiono. Ci tengo a sottolineare come in queste serie fotografiche il mio compito è stato quello di artista, non di attivista.

PAC vi ha anche commissionato un’opera che si al film di Vincenzo Neri…

Sì, si chiama “Compassion” ed è ispirato al lavoro di Vincenzo Neri, un neurologo bolognese che ha dedicato gran parte dei suoi studi al linguaggio del corpo in presenza di malattie mentali. Neri iniziò a filmare i pazienti per studiare i loro movimenti provocati dalle malattie. Registrava i suoi video con una tecnica analogica, forse un po’ primitiva, ma meravigliosa, e usava questo filmato per aiutare i suoi pazienti e i suoi studenti. Le storie che ha raccontato mi hanno interessato molto, ma non mi sono concentrato sull’aspetto medico. Queste sono storie sul corpo umano, sull’esistenza umana, su persone che soffrono di diverse malattie, incidenti o disturbi da stress post-traumatico. La mia idea non era quella di fare un copia e incolla del lavoro di Vincenzo Neri, ma solo di trarne ispirazione. Nel mio film ci sono attori professionisti che riproducono comportamenti e movimenti umani. Ci sono storie, corpo umano, desolazione e infelicità che a volte viene dal corpo umano, ma c’è anche tanta bellezza. Mi soffermo su quell’armonia che si crea tra bellezza e mancanza di essa. I sintomi delle malattie neurologiche sono certamente forti e inquietanti, ma possono anche essere belle. E la scelta del titolo “Compassion” vuole esprimere proprio questa empatia che ho per le persone malate. Spero di non turbare nessuno e che anche lo spettatore veda questa bellezza.

“POLITICAL GESTURES” è invece il suo terzo lavoro commissionato dal PAC…

Si tratta di un lungo fotomontaggio tagliato e poi riassemblato. “POLITICAL GESTURES” si sofferma sui gesti tipici dei dittatori. Racconto la sfiducia che si ha nei confronti dei politici, che spesso manipolano l’opinione pubblica e finiscono per essere crudeli. Volevo mostrare il lato oscuro del potere. Un processo che parte dalle elezioni e che poi culmina con la vittoria di queste persone, che però sono state elette dagli elettori che a loro volta diventano poi vittime. C’è un continuo climax ascendente fino a raggiungere un picco, in cui il volto non è solo più grande ma anche mostruoso.

Questa è la sua prima mostra personale in Italia. Può dirci qualcosa di più sulle altre opere d’arte che si possiamo trovare nel Museo?

Nella prima sala si può vedere un’altra parete fotografica di gesti odiosi. Ho voluto catalogare gesti e persone nelle loro pose più estreme: brandire armi, ridere beffardamente, insultare gli altri con semplici gesti delle mani. Proseguendo nella seconda sala ci sono sei lunghi cortometraggi girati nel 2017 a Mosca. I protagonisti sono soldati russi, vittime, trovati mutilati in battaglia in diversi conflitti armati iniziati dalla Federazione Russa. Mi sono concentrato, qui, sul corpo, sulla sua fragilità, e in particolare sul corpo maschile. C’è anche un’altra serie fotografica e un cortometraggio sulla crisi dei migranti in Germania e in Francia. Mi sono concentrato sul campo di Calais, nel Nord della Francia, che è particolarmente drammatico. E ci sono altri pezzi interessanti, come il film nella stanza numero 5. Si chiama “In GAME OF TAG”, come il gioco per bambini.

Il titolo della mostra è “La paura mangia l’anima” e le sue opere sono spesso rappresentate in modo drammatico. La paura, però, contiene anche qualcosa di positivo, è una forza di cambiamento, è coraggio. Vede questo coraggio nella sua arte?

Sì, è vero. La paura contiene movimento e coraggio. Per esempio, ricordo di essere andato a una marcia a Belfast per filmarla, e lì avevo paura perché la gente mi imprecava contro, ma quella paura mi ha anche portato avanti, mi ha spinto a rimanere lì e fare il mio lavoro.

Lei ha detto che è un artista e non un attivista. È possibile sovrapporre questi due ruoli?

È certamente possibile ma io preferisco tenerli separati. Anche per tutelare la libertà dell’artista, perché non sento di dover servire la società; mentre gli attivisti, al contrario, sono al servizio di una causa. Credo certamente che l’arte possa fare qualcosa per le persone e le loro vite, ma deve essere autonoma. L’arte può avere effetti sulla società anche se non sono immediati. Non posso reagire con la stessa rapidità di un attivista. Ho bisogno di settimane, mesi e persino anni per reagire artisticamente a certi eventi, soprattutto per renderli significativi.

Qual è il ruolo dell’artista e dell’arte oggi?

Anni fa mi sono interrogato sulla definizione di arte, di artista e il suo ruolo. L’arte può aiutarci a identificare alcuni progressi sociali, e l’artista può decidere se unirsi a questi fenomeni e stimolare il tema, o cercare di sradicarli. L’arte ha un potere emancipatorio, è un sapere diverso dalla letteratura, dalla politica o dalla religione. L’arte non è un testo, l’arte è qualcosa che arriva direttamente a noi. È molto persuasiva, per questo è stata spesso trasformata in propaganda. Il ruolo dell’artista forse è più complesso, meno immediato. Può manipolare la propria posizione, può decidere la propria autonomia e può anche perderla. Può mettersi al servizio degli altri o essere libero.

Qual è la sua opera preferita tra queste esposte a Milano?

Direi le ultime che ho fatto. “Compassion”, il film tratto dall’opera di Vincenzo Neri, e anche “POLITICAL GESTURES”, che si trova sulla balconata. Mi sento molto legato a queste due opere, forse perché sono le ultime che ho fatto. Ma amo anche le sculture che ho fatto con Pawel Althamer, perché sono qualcosa di completamente diverso da quello che realizzo di solito.

Oggi è colpito da un particolare evento politico che potrebbe diventare soggetto della sua arte in futuro?

Non lo so. Immagino stia parlando della guerra in Ucraina. Al momento mi sento paralizzato. So che alcuni artisti stanno già reagendo a questo evento, ma li vedo appunto più come attivisti. Io ho bisogno di tempo.

Interview : Flavio Marcelli

Photo : Ludovica Arcero

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