
Wangechi Mutu alla Galleria Borghese: arte, mito e metamorfosi nella notte romana
L’opening esclusivo dell’altra sera alla Galleria Borghese ha inaugurato con grazia e diversi super ospiti Poemi della terra nera, la prima mostra romana di Wangechi Mutu, artista keniota-americana dalla visione liquida e potentissima. Un intervento site-specific, curato da Cloé Perrone, che ha invaso con una leggerezza quasi sovversiva le sale della residenza del cardinal Scipione, la facciata e i Giardini Segreti, innestando un mix di presenze ibride, materiali organici e mitologie lontane in uno dei luoghi più emozionanti dell’arte occidentale (ma non solo).
Immerse fra le sculture del Bernini e del Canova, le opere – tra cui “Suspended Playtime”, “Ndege”, “First” e “The Seated I e IV” – sfidano la forza di gravità: pendono, si librano, si adagiano, suggerendo nuovi orizzonti visivi e sensoriali. A guidare l’esperienza, un equilibrio sottile tra suono e silenzio. Nelle sale affrescate, il bronzo – materiale antico e autorevole – si mescola a piume, carta, acqua e cera, generando creature che sembrano uscire da un mondo onirico, dalla terra stessa. Sono voci che affiorano da un passato sepolto ma non sopito. La “terra nera” del titolo è infatti fertile, è la metafora della forza generativa del lavoro di questa grande artista residente da tempo negli Usa.
Tra i primi ad arrivare all’inaugurazione, volti noti dell’arte, del cinema, della moda e della cultura, immersi in un percorso poetico, quasi magico. L’obiettivo di Say Who, oltre all’artista, ha ritratto fra gli altri, Silvia Venturini Fendi, Cloé Perrone, Vittoria Puccini, Silvio Orlando, Delfina Delettrez Fendi, Richard Saltoun, Francesca Cappelletti, Pietro Ruffo e Taabu Munyoki.
Dal giardino alla facciata, fino al video “The End of Eating Everything” e alla scultura “Shavasana I”, esposta all’American Academy in Rome, la mostra si muove tra tensione e spiritualità, interrogando il museo come luogo vivo, in continua evoluzione. Con il sostegno di FENDI, la Galleria Borghese continua a riscrivere la propria identità, proponendo un’arte che non si limita a decorare lo spazio, ma lo trasforma e lo abita.
Foto: Niccolò Campita
Testo: Germano D’Acquisto